lunedì 10 gennaio 2011

E Germania.



Un ritmo è sempre essenziale nella sua concezione intrinseca, è quello che ci si aggiunge (oppure no) a fare la differenza, e questo sembra particolarmente confermato oggi, soprattutto in ambito dance, da tante produzioni di dubbia qualità che se riducono all'osso gli elementi non sono per questo più ricche d'idee. Non è il caso di questo splendido lavoro di Frank Bretschneider, assimilabile solo trasversalmente agli ambiti più interessanti del minimal, per strigatezza di forme, articolate tuttavia in maniera estremamente complessa nelle ritmiche, trascendendo ogni genere, infine, in un succedersi d'opposizioni secche e strategiche. Pattern percussivi stilizzatissimi, lontani mille miglia (o mille piani, per usare una metafora deleuziana) dalle molte banalizzazioni correnti, poco in sintonia con i lati fuzzy dell'esistenza, con il funk archetipico e tribale, qui abilmente ricondotto invece a stringhe d'informazione binaria, ad ellittiche astratte sequenze, rarefatte ma concrete nelle efficaci concatenazioni e nei mille rivoli esplorati.

Roberta U.

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